martedì 27 dicembre 2011

La morte di Giorgio Bocca vista da un meridionale.

Due giorni fa, la sera del 25 dicembre, si è spento, all'età di 91 anni, Giorgio Bocca, giornalista, autore di vari libri e dal passato quantomeno ambiguo. Era autore di "L'inferno", libro che lo scrittore piemontese aveva completato traendo ispirazione dalle periferie degradate di Napoli; ancora nel suo "Il fuoco e la neve" aveva apostrofato Palermo in questo modo:


«(…) paesaggi meravigliosi e questa gente orrenda (…). Insomma, la gente del Sud è orrenda (…) contrasto incredibile fra alcune cose meravigliose e un’umanità spesso repellente». Una volta si sarebbe trovato in una viuzza vicino al palazzo di giustizia di Palermo: «C’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie».

Il giornalista, in un'intervista rilasciata a "Che tempo che fa", alla domanda di Fazio:"Quali sono, secondo lei, le soluzioni ai problemi del Meridione?", aveva risposto:"I leghisti dicono 'Forza Vesuvio' ", nell'indifferenza più totale di un pubblico

che avrebbe dovuto essere schierato a sinistra, nemico giurato della Lega, ma ha abbassato la testa addomesticato ad un'affermazione degna del peggior leghista solo perché il cosiddetto Bocca è "di sinistra".

Numerose sono le sue esternazioni pessimiste, dure e drastiche sul Sud, fin quasi ad arrivare al razzismo vero e proprio, ed essi sono tranquillamente reperibili in Rete, disponibili su decine di blog e video e questo post non sarà un riepilogo delle sue infelici affermazioni.

Compito, invece, di questo post sarà quello di trattare il comportamento da tenere in occasione della morte di un personaggio tanto offensivo e deprecabile. Ovviamente, la prima reazione, spinta da un istinto di giustizia primordiale, è quello dell'esultanza, della gioia selvaggia.

Ma l'esultare per la morte di un qualsiasi uomo, per quanto deprecabile sia, è un atto deprecabile quanto l'uomo stesso. Ma allora, sarebbe lecito chiedersi, è utile essere ipocriti? Bisogna "contenersi" pubblicamente ma esultare in cuor proprio? Perché sarebbe impossibile essere ipocriti con se stessi.

E, ancora, la morte è uguale per tutti? Esistono defunti migliori di altri? E' un tema molto profondo che prende origine fin dall'inizio dell'800: Thomas Gray, Antonio De Curtis in arte 'Totò', Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi e altri poeti del romanticismo scrissero poesie e carmi a proposito.

Ma, forse, nessuno di loro si soffermò sulla vita reale del defunto, basandosi esclusivamente sul ricordo che egli lascerà, sulla tomba che gli verrà dedicata. E allora io mi chiedo: tutti i morti meritano di essere celebrati con gli stessi onori indipendentemente dalla loro vita? Oppure bisogna relazionare le azioni compiute con le esequie? E' proprio vero che chi semina vento raccoglie tempesta?

Sicuramente nell'odierno modo di pensare, qualsiasi morto è glorificato, quasi santificato, oltre ogni limite. Essere defunto è sinonimo di essere stato in vita buono e giusto, l'ipocrisia ha avuto la meglio sul ricordo effettivo del defunto in questione e i difetti del deceduto vengono sistematicamente rimpiazzati dai fattori positivi, talvolta inesistenti.

Dopo la morte di un personaggio importante, famoso, viene fuori una schiera di difensori inaspettati i quali non hanno certo dedicato anima e corpo nella difesa dello stesso personaggio da vivo, così come vengono fuori critiche mosse al personaggio in questione e vengono trasformate in atti di sciacallaggio, in mancanza di rispetto per i morti e per la famiglia del morto.

E, soprattutto, il ricordo che si avrà del defunto non potrà mai essere del tutto imparziale ed obiettivo: sarà senz'altro contaminato da figure create per motivi denigratori o apologetici.

Si può dire che qualsiasi defunto ha la stessa sorte, sia esso famoso o meno. Alzi la mano chi non ha mai subito neanche un lutto familiare (e mi auguro di trovare uno sciame di mani alzate). Costoro converranno senz'altro di affermare che i difetti, gravi o meno che siano, del defunto sono stati seppelliti con lui e in famiglia si tenderà sempre a parlare bene. Chi non rispetta questa convenzione sarà considerato senz'altro, come minimo, una persona maleducata.

Questo processo è toccato a tutte le persone defunte. Considerando solo il piccolo dominio della storia recente italiana, ne sono esempi Giuseppe Garibaldi, Benito Mussolini, Cossiga, Craxi ed è toccato a Giorgio Bocca. Costui era davvero un grande giornalista, scriveva un'interessante rubrica ("L'Anti-italiano") su L'Espresso ed ha avuto un passato mirabile.

Fu un accanito fascista fin dai tempi del GUF, un antisemita e sostenitore del regime. Dopo la caduta di Mussolini nel 1943 si ritrovò partigiano e combattente della Resistenza. Trascorse i suoi ultimi anni a scrivere libretti e rubriche per vari giornali. Famoso era la sua avversione nei confronti di tutto ciò che è meridionale.

Ma tutto questo suo passato contraddittorio, queste sue scelte opposte e apparentemente inconciliabili, questa sua strada quantomeno discutibile e tortuosa da lui intrapresa e conclusa è stata puntualmente cancellata dalla critica e dal sistema mediatico.

Ora, tutti coloro che gli muovono le stesse critiche mossegli da vivo vengono considerati alla stregue di belve, di sciacalli, di gente irrispettosa della morte altrui. Con tantissima ipocrisia.

Potete star certi che la stragrande maggioranza delle persone che difendono Bocca come un idolo (mentre fino a ieri era totalmente ignorato) appartengono ad un'ideologia di sinistra deviata e giustizialista che difendono il proprio "uomo" venuto a mancare ripetendo agli scettici della grandezza di Bocca le stesse parole che sono state loro mosse mentre festeggiavano per la morte di Gheddafi o mentre si bevevano la storiella dell'esistenza, della guerra e della morte di Bin Laden.

Ed ecco che tutte queste affermazioni da me riportate confutano la massima filosofica di Shakespeare:"E' sufficiente una goccia di male per contaminare un mare di bene". La teoria riportata nello Julius Caesar appare, quindi, effettivamente verificata solo in un ristretto dominio: la morte è in grado di ribaltare quest'altalena aggiungendo bene dove il bene proprio non c'è.

E, con la morte, va via anche l'ultimo sprazzo di criticità sensata e non faziosa. I ricordi che si avranno di Bocca, di Mussolini, di Garibaldi e di qualsiasi altro defunto sono solo frutto dell' "ambiente" che ciascuno di noi frequenta.

Ma c'è ancora un altro punto da considerare. Una volta scelta la strada della sincerità (in questo caso, l'esultanza alla morte di Bocca), è giusto festeggiare ugualmente? Giorgio Bocca in questione era un assassino "virtuale". Con i suoi scritti pieni di pregiudizio e di odio verso una società sconosciuta a lui e, tutto sommato, forse migliore della sua, ha "intellettualizzato" un odio che dovrebbe essere frutto solo di tre cose: ignoranza, invidia e paura.

Lui, nella sua posizione di "intellettuale", dando peso a simili pregiudizi ha neutralizzato questi aspetti fondamentali per vincere qualsiasi tipo di razzismo. E quindi lui è davvero un grande assassino e davvero (lui sì!) un grandissimo sciacallo. Ma è giusto festeggiare mettendosi al suo livello? E' giusto criticare lui comportandosi come lui?

La risposta è negativa secondo principi morali. Ma, d'altronde, non si può negare che la morte è disuguale, è elitaria, e la morte di Bocca non può essere considerata uguale alla morte di un missionario nei Paesi poveri o di un volontario negli ospedali o nelle case di cura.

E quindi? Quindi esiste una scissione tra la "pratica" e la "teoria", nella misura in cui moltissime cose che sono giustissime in teoria, non possono avere la stessa giustizia nella pratica. La causa qual è? La causa è dell' "ambiente" frequentato da ciascuno di noi il quale limita fortemente la nostra totipotenza.

In altri termini, non è giusto festeggiare la morte di chicchessia (lo impone la morale, la religione c'entra poco) ma la sua morte non può essere considerata alla pari di tutti. Bocca era una persona inferiore. Lo era oggettivamente. Il razzista è sempre inferiore. E la sua morte di certo non addolora (o non dovrebbe addolorare) chiunque si dedichi alla sconfitta del razzismo e del pregiudizio (in generale, senza specificare l'oggetto del razzismo). Anzi. Si può affermare senza troppe contestazioni che non si sentirà affatto la sua mancanza.




lunedì 12 dicembre 2011

Il Natale di Torino e il Natale di Napoli secondo il Tg1

Domenica sera vidi un servizio del Tg1. Non mi capita spesso una tale sciagura, ma le condizioni hanno fatto sì che io abbia assaggiato una fetta di quel giornale. In particolare mi ha colpito un servizio, che doveva essere in perfetto stile "Studio Aperto"

su come si vivono le settimane pre-natalizie nelle città italiane. Le due città messe a confronto, per l'occasione, erano Torino e Napoli. Ovviamente ascolto il servizio con attenzione e sento cose che mi fanno riflettere molto.

Ho visto e sentito una Torino felice, allegra, ricca, che passa le sue settimane che precedono il Natale e Capodanno in luci, feste, panettoni, cotechini; ho visto gente torinese che va a fare un sereno, rilassato e meritato shopping dopo una dura giornata di lavoro; ho visto un'economia che va a gonfie vele, città affollate dai turisti, alberghi stracolmi per le prenotazioni che fioccano, denaro che entra, amministratori soddisfatti, che sono addirittura riusciti a sconfiggere la crisi che ha declassato Francia e Usa...

E poi ho visto e sentito la solita Napoli, squallida metropoli decaduta del Sud. Il servizio inquadrava una strada anonima, di pieno pomeriggio, deserta e con negozi chiusi (mentre a Torino si sono inquadrate le vie del centro). E via con le solite cose, il solito duopesismo:



Ho visto e sentito di gente svogliata, troppo oziosa perfino per andare a comperare i regali, troppo avara per spendere quel centesimo in più richiesta dal legittimo governo di Monti che altro non è da considerarsi se non un briciolo di tutte le ruberie del Sud a 150 anni a questa parte;

Ho visto e sentito una città attanagliata da una crisi che non lascia scampo, che non consente nemmeno il più elementare e classico shopping natalizio. Ho visto strade deserte, negozi chiusi, alberghi vuoti, turisti che abbandonano una città in ginocchio.
Insomma, Torino paragonabile ad una sviluppata città del Nord Europa che sembra immune a qualsiasi recessione e sembra non conoscere la parola 'crisi'; Napoli paragonabile a quelle metropoli del Nord Africa stravolte dalle guerre civili degli ultimi tempi e che vive una gravissima crisi dal quale non sa se ne uscirà mai.

Tale è lo scenario, lo schema perfetto delle due Italie: l'una ricca sempre sorridente, l'altra povera sempre mortificata e flagellata. E la cosa che fa riflettere non è la differenza di misure adottate per il Nord e per il Sud (ormai ci siamo assuefatti a tale scempio), ma è il fatto che

sia Torino che Napoli rappresentano, rispettivamente, la quarta e la terza città più importante d'Italia, quindi si presuppone che vivano sulla stessa barca, che siano consapevoli, coscienti e solidali nelle loro rispettive crisi. Ma i conti non tornano affatto. Torino = benessere, ricchezza e produttività e Napoli= crisi, disoccupazione e povertà è un'equazione che ammette due soluzioni:
  1. Il Tg1 ha messo in atto l'ennesima bufala della gestione Minzolini. Non è la prima volta e non sarà l'ultima. In assenza di notizie davvero importanti da dare (o troppo importanti per essere date) tutti i Tg fanno a gara a chi la spara più grossa, a chi inventa lo scoop a tutti i costi pur di non parlare dei problemi reali dell'Italia e di dare un'esca alla popolazione, la quale, puntualmente, abbocca. E gli argomenti, a ben rifletterci, non sono poi così vari: possono parlare del caso inventato di una rapina, di un furto sventato, possono riciclare una notizia di un omicidio avvenuto anni fa, possono "riadattare" un servizio di Tv inglesi e americane per far finta di parlare di estero, di guerre del petrolio in Africa e Medio Oriente. A volte la gara si trasforma a chi spara la notizia più assurda e, in questo, è una lotta senza quartiere tra Tg1 e Studio Aperto: il primo apre le danze parlando di un gatto che ha ereditato immensi patrimoni da una vecchia vedova deceduta, il secondo ben tiene dando notizie raccapriccianti riguardo l'ultimo matrimonio di una celebrità o l'ultima notizia (inventata) dell'omicidio di Sarah Scazzi, di Yara Gambirasio, di Melania Rea e di altre fiction aperte. E poi, quando la noia raggiunge lo zenit, in quelle piovose domeniche di dicembre, quando il più grande ammortizzatore sociale degli ultimi anni per quantità di lavoro regalato a giornalisti, opinionisti e politicanti, Silvio Berlusconi, è sparito definitivamente dalla circolazione, non rimane che la solita, cara, vecchia, insostituibile, Napoli. Basta un bel servizietto facile facile sull'ultimo scippo avvenuto settimane fa visto come causa di una degenerazione indelebile e inarrestabile, unito con statistiche inventate o poco attendibili che vedono tutte le metropoli italiane ed europee come Giardini dell'Eden in cui non c'è una carta in terra, non un borseggio, non una rapina e mescolato con studi, reportage e documentari che confermano la bassezza e l'inferiorità dei napoletani e la ricetta è pronta: un altro mese in cui il giornalista-sciacallo di turno potrà sfamare la sua famiglia. E poco importa se a rimetterci è una Provincia intera di quasi 4 milioni di abitanti. L'importante è aver soddisfatto il direttore. Ma, tranquilli, sono in ottima compagnia. Anche i comici, da Antonio Cornacchione a Enrico Brignano e, ultima ma non ultima, la recente battutaccia di Gene Gnocchi sulle rapine alle mogli dei calciatori, sommata ai tanti piccoli commenti di persone e media che parlano di Napoli come uno zimbello fisso, un'accozzaglia di camorra, rifiuti che vanno e vengono (mentre l'emergenza vera e propria è finita da più di un anno nel silenzio generale), disoccupazione e poca istruzione rendono Napoli ciò che è. Contribuiscono moltissimo, con questo tipo di commenti, di paroline, di "proverbi" a rovinare l'immagine della città partenopea. Se Napoli è ciò che è, la causa è da ricercarsi anche e soprattutto dall'esterno, dai continui ritratti manomessi che vengono mostrati. Poi dall'atteggiamento inadeguato di molti abitanti.
  2. La crisi non esiste per tutti, non è un fenomeno globale come lo vogliono far sembrare. Le immagini mandate in onda dal Tg1 corrispondono perfettamente alla realtà e descrivono due Italie l'una opposto dell'altra: la prima composta esclusivamente di ricchezza, benessere e felicità; la seconda solo di povertà, miseria, disoccupazione e crisi. Non è una novità. E' un andazzo che va avanti da quando l'Italia fu sciaguratamente unita, il Sud, il Regno delle Due Sicilie, Napoli rappresentavano il centro dell'economia, il fior fiore della cultura, del progresso. Una sorta di Scandinavia del XIX secolo. E fu rapinata, distrutta, depredata, saccheggiata, insultata, mortificata e denigrata da ladri tagliagole che noi siamo costretti a decantare nelle nostre feste; le medaglie, i riconoscimenti, gli onori sono riservati ad assassini senza gloria; a Torino vi è un museo in cui vengono esposte le reliquie, gli scheletri e le ossa dei briganti catturati, deportati e lasciati morire di stenti nei lager savoiardi a causa di pseudo-teorie di un tale chiamato Lombroso, scienziato che dimostrò l'inferiorità di razza, di natura della popolazione meridionale. Un vero e proprio Protocollo dei Savi di Sion. Ma è assolutamente inutile adesso ripetere tutte le testimonianze e le documentazioni che circolano tranquillamente su internet e nei libri appositi. La crisi esiste solo ed esclusivamente al Sud. Il Nord invece è una sanguisuga che spreme in continuazione il limone e lo butta via. E alla fine è lo stesso Sud ad essere etichettato come palla al piede.



Ecco, queste sono le due possibili soluzioni alla vicenda. Sinceramente non so quale delle due preferire. Ma, in ogni caso, da qui non si scappa.

martedì 6 dicembre 2011

Striscioni e bandiere borboniche allo stadio San Paolo in Napoli-Juventus

Martedì scorso si è recuperata la partita di campionato, rinviata per pioggia, Napoli-Juventus. E' una partita sentitissima essendo un derby in piena regola: in Campania, il 70% dei tifosi non napoletani tifa per la Juventus. Lo stadio era stracolmo come previsto, solo che questa volta c'era una particolarità.

La tifoseria napoletana è sempre stata estranea a ragioni "politiche" (le virgolette sono necessarie in quanto la politica fatta negli stadi ha un che di molto superficiale, approssimato e propagandata da persone che non sono certamente dei geni), nelle curve del Napoli non sono mai state viste, a memoria d'uomo

croci celtiche, svastiche o striscioni riportanti motti fascisti come nelle curve di tante tifoserie affiliate a Forza Nuova (Verona, Lazio e Roma in particolare), e quest'anno ha voluto rompere la tradizione inserendo una coreografia che avrebbe dovuto far molto discutere,

invece è passata nel più totale silenzio dai media menefreghisti di notizie non utili per grandi scoop di cronaca. E' stata creata una maxi coreografia formata dal seguente bandierone:

Accompagnato da questo striscione:


Sono immagini inneggianti al Regno delle Due Sicilie, ai Borbone e ad una visione relativista dell'unità d'Italia, da un punto di vista diverso, però, di quello leghista basato solo su razzismo e su violenza inutile.

E queste immagini avrebbero dovuto comparire in tv, avrebbero dovuto dedicare interi talk show al riguardo, invece di occupare le ore serali del venerdì a perdersi in congetture lucrando sulle disgrazie altrui. Avrebbero dovuto discutere (specie qualche mese fa) sul significato di unità d'Italia,

se questa ha effettivamente messo tutti d'accordo, avrebbero dovuto muovere critiche, si sarebbero dovuti sciogliere dubbi, avremmo avuto bisogni di chiarimenti, avremmo voluto che, in occasione del 150esimo anno dell'unità, la stessa si completasse.

Inutile dire che si è scelto, italianamente, di non agire, di lasciare che i problemi vadano da sé, di sorvolare certe questioni, di bollare chi le muove come "sovversivi" , come "ignoranti" , come stolti da trattare con un misto di arroganza, pietà, tenerezza, rabbia e compassione per avere ancora dubbi in merito ad una divinità.

Come già abbondantemente riferito da Pino Aprile e altri scrittori che denunciano le disuguaglianze e le ingiustizie protrattesi dall'unità d'Italia fino ad oggi, le celebrazioni sono state una terribile occasione mancata. Si è voluta l'esaltazione, l'apoteosi, la decimazione fascista che etichetta coloro che non prendono parte alle sfilate del Duce come "comunisti" e "traditori della patria", e, purtroppo, non tutti coloro che hanno vissuto i 150 anni dell'unificazione saranno presenti al 200esimo.

E così, se vale il famoso proverbio Errare è umano, perseverare è diabolico, cosa risponderebbe Aristotele al sillogismo: "Tutti coloro che errano sono umani. Gli italiani non errano, perseverano. Dunque gli italiani sono...."?

E' troppo facile, ennesima parte della recita allo scaricabarile tutto italiano concedere paternalisticamente che, al momento dell'unità, sono stati commessi degli errori dallo Stato maggiore. Così sono nate le tragedie e così riescono ancora a vivacchiare pensieri apologetici di nazismo.

Ma lasciando perdere le annose questioni concernenti i numerosissimi "errori" dell'unificazione italiana, non vorrei perdere il filo con il principale argomento di questo post. Al San Paolo sono comparsi, per la prima volta, degli striscioni con rivendicazioni identitarie, esposti dal popolino, non dal topo da biblioteca, dal professorone saccente o dal bizzarro "nerd" complottista di turno.

Ed è proprio questo che mi fa riflettere in maniera diversa. Siamo sicuri che è un fattore positivo il fatto che tutti espongano simili striscioni provocatori senza neanche conoscerne il vero significato? E' positivo il dilagarsi del "neoborbonismo"?  Io direi di no!

A me vengono subito in mente le pagliacciate di cui la Lega è sovrana indiscussa ed indiscutibile, dalla gente travestita da Obelix e Asterix ai comizi alla raccolta dell'acqua (tossica) del Po; dal "Parlamento Padano" allo "Statuto Leghista".

Manifestazioni di fatti così importanti, storici, delicati come il Risorgimento, il revisionismo, il Complotto Carbonaro, le influenze massoniche, esoteriche, giacobine, le leggi dell'economia che condannano o alzano in cielo il Regno delle Due Sicilie non sono alla mercé di tutti.

E gli argomenti sono ulteriormente complicati dal fatto che esistano ben poche fonti neutrali e obiettive; sono frequenti, difatti, solo testi apologetici o avversi ai Borbone. Non si può, quindi, giudicare con razionalità, con lucidità.

Se poi aggiungiamo a tutto questo l'amplificarsi dei sentimenti, delle emozioni, della perdita della ragione dovuta alla primordiale riunificazione col branco che una partita di calcio porta con sé, appare molto difficile che gli autori degli striscioni siano a conoscenza di elementi sufficienti per un giudizio parziale.

E, visto che gli stadi non sono proprio dei cenacoli in cui si ritrovano filosofi e sapienti a discutere civilmente di maieutica, di metafisica e di teoremi di analisi matematica infinitesimale, potrei giurare che tra le molte persone che hanno applaudito, il più istruito aveva la V elementare.

Non si fa così revisionismo storico, non si recuperano le origini stuprate di Napoli attraverso simili sciocchezze. Rendere una denuncia, una seria opposizione, una documentata smentita di un piano massonico un banale coro da stadio, un linciaggio intellettuale effettuato da persone non all'altezza delle idee che professano

è esattamente ciò che potrebbero aver progettato. Così facendo, le rivendicazioni partenopee e meridionali rimarrebbero inascoltate con il pretesto (giusto, stavolta) di non poter certo dare credito agli "ultras" e il fatto stesso che questi dichiarino simili ideali è un segno di degrado dell'ideologia, è la negazione di sé stessa.

Perciò io dico, lasciamo le pagliacciate alla Lega e i movimenti, le organizzazioni, le rivendicazioni a noi del Sud. Ma, vedo, stiamo scendendo più giù già da molto tempo.