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giovedì 17 novembre 2011

Risposta a Beppe Severgnini nella rubrica "Italians" sull'Unità d'Italia

Aprendo "Sette", il settimanale del Corriere della Sera in edicola tutti i giovedì, mi trovo a leggere questa lettera inviata da un certo Umberto Brusco alla rubrica Italians di Beppe Severgnini.

Il nome della lettera non poteva che attirare la mia attenzione: era intitolata "Chi ha voluto l'Unità d'Italia" e il testo è il seguente:




Caro Severgnini, ho appena finito di leggere il libro di Lorenzo Del Boca Polentoni, sottotitolo Come e perché il Nord è stato tradito, e quello di Pino Aprile Terroni, sottotitolo Tutto quello che è stato fatto perchè gli italiani del Sud diventassero meridionali.
Da entrambi si evince che i soli piemontesi, coadiuvati dai loro cugini francesi, volessero l'Unità d'Italia. Il Veneto stava meglio con gli austriaci e il Sud con i Borboni. Le mie domande: chi è che ha voluto l'unità d'Italia a parte i piemontesi? Perché a scuola i testi sul Risorgimento sono ancora così poco fedeli?



Domanda giustissima ed elegante a mio avviso di chi gli ha chiesto, in termini più rozzi, "Chi li vuole 'sti veneti? E perché non si parla della grandezza di Napoli?"

Ed ecco la risposta di Beppe Severgnini:



E se a esser poco fedeli fossero certi libri a tesi? Sarei pronto a scommettere che, alla domanda secca in un referendum ("Volete rinunciare all'Italia unita?"), la maggioranza di noi risponderebbe "No!". Certo, i problemi ci sono e sono grandi: ma le responsabilità sono di tutti. Il clamoroso ritardo del Sud-caso unico tra le regioni svantaggiate d'Europa-è un fallimento collettivo: di tutti noi italiani, dovunque abitiamo e siamo nati. E invece no, non lo vogliamo ammettere. Il nostro motto - da cucire sul tricolore - non cambia mai: "E' stata tua la colpa!". Tanti settentrionali accusano i meridionali, molti meridionali sospettano dei settentrionali, tutti additano il Centro (Roma). E' un modo per non assumersi le proprie responsabilità. E questo sì è davvero molto italiano.


Il sottoscritto non è capace di star zitto leggendo queste cose, per cui stamattina stesso gli ho inviato il seguente messaggio:







Caro Severgnini, ho letto stamattina la sua risposta a Umberto Brusco sulla sua rubrica "Italians". Le vorrei porgere delle domande con la stessa sincerità con cui mi confido ad un amico,se permette, non la solita lettera di pubblicazione. In che modo la rivendicazione della cultura meridionale cancellata dal Risorgimento a suon di deportazioni e distruzioni a tappeto di almeno 81 paesi del Meridione (tra i quali Pontelandolfo a cui sono arrivate tardive e inutili scuse ad agosto di quest'anno), tutte con fonti documentate, cancelli la presa di responsabilità di ognuno? Non crede che invece la riscoperta di una storia gloriosa, soppiantata da una retorica savoiarda prima e fascista poi,sia uno stimolo ad impegnarsi? Se l'unità odierna scontenta sia "gli instancabili lavoratori" veneti che la "feccia fannullona" dei terroni un motivo ci sarà, no? Dire che la Germania ha invaso la Polonia nel '39 equivale ad un esonero di responsabilità da parte dei polacchi e uno scaricabarile sui tedeschi? Perché non dovrebbe essere così anche in Italia? Non crede che l'Italia tutta possa migliorare dal cambiamento di politiche ostili ad aree arretrate come il Meridione (a causa della politica stessa) per poter trovare una risorsa come fece la Germania Ovest dopo la Guerra? Non crede che nell'attualità dovremmo stampare sul tricolore l'espressione napoletana "E je ch'aggia fa!?" ("Io che ci posso fare!?")in segno di impotenza? E non crede che questa stessa impotenza sia acquisita da 150 anni di senso di minorità? I 150 anni di celebrazioni sono stati un'occasione sprecata per rendere giustizia alla Storia. E ancora si è scelto di non agire, molto italianamente. Io avrei tante altre domande da porle, ma io spero che ci rifletta e non importa se non mi dovesse pubblicare (non l'ho scritta per questo scopo). Lei è una persona che vale, non si lasci trasportare da soliti, banali luoghi comuni, la prego.




















Ho scritto nel post, in breve per limite di spazio, tutto ciò che volevo dire. Io torno a ripetere che non credo nei vangeli né nelle Bibbie per cui non prendo per oro colato ciò che è scritto in qualsiasi libro o su internet. E chi mi conosce e chi ha letto anche i miei post precedenti sa bene le misure, talvolta drastiche, che prenderei

nei confronti di meridionali e soprattutto napoletani che non rispettano la propria città e le regole di convivenza civile e morale. Eppure io abbraccio la gran parte delle teorie che vedono il Sud come una grande potenza e ora ridotto in miseria da un manipolo di delinquenti che perseverano negli stessi errori, danneggiando anche se stessi pur di non avvantaggiare l'altro.

E io mi reputo essere un grande responsabile. La riscoperta della grandezza delle mie origini mi ha portato ad avere più rispetto, più civiltà per chi mi sta intorno e per la mia terra e se l'ho fatto io, non capisco perché non debbano farlo anche gli altri. Ci rifletta ancora signor Severgnini.

venerdì 5 agosto 2011

Risposta ad Ugo Piscopo del Corriere della Sera a proposito dell'articolo sul brigantaggio
















Venerdì 5 agosto 2011. Apro le pagine dedicate al Mezzogiorno del Corriere della Sera. Scorgo un articolo, firmato Ugo Piscopo, che attira subito la mia attenzione, chiamato "In piazza restano i briganti, ma così non vincono i nostri". L'articolo parla di un episodio avvenuto a marzo,a Napoli.

In Piazza Dante, un gruppo di ignoti ha scritto a caratteri cubitali, con vernice bianca, inserendo una lettera per ciascuna colonna del Convitto nazionale: "Viva il brigantaggio". Ciò ha suscitato lo sdegno del dottor Piscopo che ha definito l'accaduto: selvaggismo ideale di regressione a un passato che non si può e non si deve rimpiangere. Il dottor Piscopo ne ha per tutti: è una prova di barbarie la scritta; l'amore per i briganti appartiene all'invenzione narrativa, di figure da romanzo che cominciarono a divulgarsi già quando ancora il tragico fenomeno del brigantaggio sconvolgeva il Mezzogiorno" come il "brigante buono e della brigantessa affascinante, tutta genuinità, fuoco e fiamme.

Il dottor Piscopo afferma, inoltre, che l'deologizzazione del brigantaggio ha un suo profilo storico, che tra fine del secolo scorso e inizio del nuovo secolo ha avuto una vampata di accensione violenta, a cui danno consenso al Sud, in un mix vischioso di posizioni, neoborbonici, nostalgici, revisionisti, autonomisti, rivendicazionisti, e tanti tanti delusi della ex sinistra, sia storica, sia radicale, In questo ambito trova credito come storico quello che storico non è. Quale la distorsione pregiudiziale degli eventi. L'esercito italiano è adeguato a esercito piemontese, che viene ad occupare un regno altrui. La realtà meridionale è descritta come un'oasi di serenità e di benessere. I settentrionali sono adeguati a iene, che si nutrono del sangue dei meridionali, indifesi agnellini. Il brigante è il sano, roccioso, romantico difensore dei "nostri".

Il dottor Piscopo dice che questa storiaccia va respinta ai mittenti, non se ne può più. Dice che il brigantaggio inizia come fenomeno politico già nel 1799 con la Rivoluzione Sanfedista Napoletana.

Ovviamente io non sono d'accordo con niente di tutto ciò, anche se condanno fortemente la scelta di imbrattare il muro di una piazza così bella (anche se, in tutta sincerità, preferisco mille volte questa scritta anziché le insulse frasi pseudo-amorose che sporcano gran parte del centro storico)

Il discorso, però, è ancora più a monte: il dottor Piscopo ha "dimenticato" di dire che la scritta apparve in risposta alle celebrazioni dell'Unità d'Italia, e che era, quindi, un modo come un altro di esprimere il proprio dissenso, a prescindere da ciò che sia stato il brigantaggio nella storia e nella politica, ma solo come simbolo di disaccordo con i festeggiamenti.

Direi sia un metodo staliniano imporre le celebrazioni, di qualsiasi cosa si tratti, e la gente ha il pieno diritto di dissentire. Il dottor Piscopo ha sorvolato quest'aspetto, soffermandosi sulla prassi prettamente storica. Ma fosse andata bene almeno lì...

Il brigantaggio fu un movimento di protesta contro l'invasione garibaldina, ed ebbe un nucleo molto eterogeneo: contadini alle prese con un'altra inutile ribellione, ex soldati dell'esercito borbonico, disertori garibaldini, gente comune resasi conto delle atrocità piemontesi e (perchè no?) anche briganti nel vero senso del termine. Del resto quale gruppo di resistenza non ha accolto marmaglia? Anzi, in molti casi erano parte integrante,

vedi il battaglione cubano guidato da Chè Guevara, i partigiani italiani e gli angloamericani durante la Seconda Guerra Mondiale e tutte le altre forze uscite vincitrici nella storia e perciò viste come gruppi di anime pie, mentre l'esercito di Batista, i fascisti a difesa della Repubblica di Salò e i tedeschi sono visti come un gruppo di orchi. Se questi ultimi avessero vinto, ci sarebbe stato lo scenario opposto, perché la storia la scrivono i vincitori.

Questa è la grande Verità che Piscopo ignora. Ciò che lui chiama "antistoria" non è altro che il racconto della stessa vicenda ma da un altro punto di vista, dello sconfitto. Appare, quindi, fuori luogo la citazione alla fuga di Ferdinando IV a Palermo nel 1799. Il dottor Piscopo, inoltre, mostra gravi lacune storiche se crede ancora alla favoletta del Sud povero e agricolo e il Piemonte ricco, liberale e pacifico.

Non è anche questa " un' ideologizzazione" del piemontese portatore di civiltà? Secondo il ragionamento superficiale e nozionistico di Piscopo, l'amore per la "patria" unica e italiana dovrebbe essere l'anticamera del fascismo? La Storia che lui ama e che si insegna nelle aule, non è forse una distorsione pregiudiziale degli eventi che vede il Piemonte di Cavour come un'oasi di serenità e benessere e i meridionali adeguati a poveracci?

Oramai è tramontatala storiella che vede il Regno delle Due Sicilie come la negazione di Dio scesa in Terra (cit. Gladstone). E' noto ai più la grandezza dei Borboni e del Meridione. Piscopo dovrebbe informarsi e rendersi conto che esiste una via di mezzo tra la retorica fascista nazionalista (studiata nelle scuole) e la retorica antirisorgimentale revisionista (che, indubbiamente, c'è). L'episodio di Piazza Dante non era un riferimento ai Borboni, né un'apologia del brigantaggio in sé per sé, ma un segno di "nostalgia" (per usare un suo termine) giusta e necessaria verso un gruppo di uomini che resistevano al crollo di un'epoca florida la cui fine ha fatto iniziare tutti i problemi della città di Napoli (tralasciamo le campagne della Lucania e i monti della Calabria. Quello richiede un discorso a sé. Io parlo solo della città di Napoli).

Non so di dove sia Piscopo Ugo. Suppongo sia di Napoli o, quantomeno, campano. E il rifiuto di conoscere un'altra versione della storia (e non solo quella Made in Padania) della terra che avrà, probabilmente, dato i natali a lui e alla sua famiglia, è un'infamia, se possibile, ancora maggiore di imbrattare i monumenti delle piazze della meravigliosa Napoli.

Con questo io non voglio assolutamente sostenere il brigantaggio. Lo ripeto per l'ennesima volta. Io non sono un neoborbonico, che trovo, anzi, un'ideologia grottesca in quanto non si può essere nostalgici di un regno che nessuno ha mai vissuto, salvo clamorosi e innaturali casi di longevità.

Non si può conoscere una cosa che nessuno ha vissuto e la cui conoscenza è legata a fonti storiche alterate sia da una fazione che dall'altra. Io sono semplicemente un cittadino napoletano che non ha alcuna fiducia né nella storia né nella politica e che constata un crollo della città che non accenna a diminuire. I briganti furono gli ultimi resistenti di quell'antica civiltà partenopea e come tali vanno rispettati se non proprio onorati. Io non li onoro.

La maggior parte di loro proveniva dalle lande desolate del Tavoliere delle Puglie, dai monti della Lucania, dall'inospitale Calabria. Cosa ne potevano sapere della cultura e della filosofia che i piemontesi avevano distrutto? I briganti hanno subito un tradimento, l'ennesimo. Sono passati dalla padella borbonica alla brace piemontese. E, involontariamente forse, hanno finito per difendere Napoli.

Indecente il semplicismo di Piscopo nel definire l'unità d'Italia mal fatta e mal gestita come fosse un comprensibile errore. E' stato qualcosa in più: è stata una guerra di espansione, una colonizzazione. Ma noi napoletani non possiamo contare sui vari Masaniello, Ché Guevara, Malcom X o Nelson Mandela. Dobbiamo contare solo su noi stessi. Ed è proprio questo, forse, che mi fa più paura.